La città è un teatro di guerra, diceva il poeta. Il tempo della pandemia non spazzerà le metropoli, il dopo sarà un nuovo afflusso, una lunga veglia comune per il risorgimento della capitale ferita. Come api operaie impazzite ci prodigheremo per ridare dignità e funzione al nostro ricco alveare, per rimetterne in piedi i pezzi, ristabiliremo le priorità, i comuni valori che ci hanno fatto credere, e ci fanno credere tuttora, che la vita nelle grandi aree urbani sia la sola possibile.
Ma come siamo giunti a questo? All’idea che vivere in affollatissime arnie sia l’unica via? La pandemia non spazzerà questo convincimento, dicevamo, ma accelera domande che già esistono. Perché abitiamo le metropoli? Perché l’accentramento porta confronto, l’aggregazione sviluppa conoscenze e quindi sapere. Perché la città è il tempio della crescita e dello sviluppo, il luogo della medicina e della cultura, della comparazione frenetica e perpetua che stimola l’immaginazione. La città ci fa cittadini del mondo, così ripetiamo, amplia lo sguardo e il senso critico, offre arricchimento personale ed economico. Perché all’interno delle sue mura siamo protetti, crediamo di colmare vuoti che invece non colmiamo, differenze che restano tali, connessioni che non sono reali. Ci sono città così grandi da non poter essere lasciate mai, deliri di cemento invalicabile dai quali uscire è faticosissimo. Grandi comunità dove si è soli tutti insieme, e tutti insieme si vive il disordine da fine del mondo.
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