Lo spazio che abiteremo domani

È bella e pericolosa la grande città, ci fa schiavi con il suo odore di piscio e gli sbuffi caldi a ogni angolo, con le mille luci e i colori ci anestetizza, e così prendiamo la forma del marmo, non sentiamo, non tocchiamo, non vediamo altro che ciò che lei vuol mostrarci, altro che il nulla, nell’eterna luce i nostri occhi si fanno incapaci di scorgere i bordi nel buio. La città è troppo di tutto, e il troppo è niente, in fondo.

I centri storici conservano la grazia però, lì la storia fa da madre, la bellezza intatta è presenza, al centro la metropoli zittisce con la sua autorità religiosa e civile. Ma molti centri sono ormai involucri vuoti, lo sviluppo socioeconomico e la crescita inarrestabile dell’idea metropoli non permette alla gente di viverla la città, se non marginalmente, se non sui bordi, accalcati come le api nelle arnie appunto.

Le grandi e superflue periferie, installazioni del brutto, svuotate di senso, prive di negozi e teatri, di commissariati e locali, prive di Stato, città senza città, lotti dove si torna a dormire, di sbarre alle finestre e trincee fortificate, ecco dove vive oggi una quantità indicibile di esseri umani, in prigioni di lamiera e cartone nelle quali nessuno saluta nessuno. Tutti lontanissimi dal bello che ingentilisce l’animo, affogati nella palude del disorientamento. La periferia è uno stato mentale, anche il centro può esserlo, è la dinamica degradata, l’idea che l’urbanizzazione non debba finire mai e a ogni bivio tutto debba ricominciare, l’illusione che non ci sia mai un punto d’arrivo, il convincimento che la vita sia un continuo aggrapparsi al proprio affanno, senza potersi acclimatare mai.

Perché allora non ridisegnare il nostro spazio? Perché non approfittare di quanto accaduto per ripensare al domani? Perché non tornare a dare valore al piccolo centro, al borgo, all’idea di un nuovo modo di stare al mondo? Non è discorso retorico e semplicistico sull’abbandono della città e il ritorno alla vita rurale, che pure molti fanno, è pensare di estrapolare il buono dell’idea metropoli e portarlo fuori dalla metropoli, avere il coraggio e la follia di aprire una libreria in un paese di tremila anime, per esempio, tentare di sviluppare l’unicità del territorio con la cultura, portare nelle valli che hanno bellezza e poco più cinema e teatri, mostre e musei, lavoro di mani e cuore, la nostra idea di grandezza. Andare nei luoghi piccoli e lontani non per oblio, fuga o ritorno, ma per un nuovo inizio, offrendo la nostra conoscenza, la specializzazione, ciò che ci muove e sappiamo fare. Riempirli questi luoghi di piccoli miracoli, come dice Franco Arminio, quelli che spettano a noi gente comune.

E lì rallentare, sedersi e mettersi in ascolto, non avere fretta, sintonizzarsi sul tempo e le stagioni, non contare i giorni e adattarsi al cambiamento, come sanno le specie animali, come noi non sappiamo più. E lì tornare a sentire, a salutare di buon mattino, a dare attenzione a chi non ne ha, a guardare, toccare e mettere insieme, sé stessi e le cose, farsi muratore del proprio spazio nuovo da abitare.

Non è rifugio, o fuga, è coscienza, sono i nostri occhi che ci interrogano di continuo in questa lunga notte, chiedendo ascolto.

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